La Turchia è sul punto di perdere, in questi giorni, due occasioni storiche: il ruolo di leadership nel Mediterraneo e l’ingresso nell’Unione Europea. Il governo di Recep Tayyip Erdoğan è travolto da una serie di scandali che ne minano la pretesa di egemonia nell’area mediorientale, nello stesso momento in cui si perde credibilità nel complesso negoziato con la Ue. Non sono buone notizie per gli equilibri di una parte del mondo già sconvolta dalla feroce guerra siriana, dal fallimento in Libia e in Egitto (la Tunisia è in bilico) delle “primavere arabe”, dagli ostacoli che impediscono il negoziato per la soluzione del problema israelo-palestinese.
Sembrava fosse finita nel nulla la rivolta popolare scoppiata a giugno contro l’ipotesi di distruggere il Gezi Park, il polmone arboreo di Istanbul, per costruirvi una caserma, una moschea e un centro commerciale. L’opposizione era stata condotta per alcune settimane nonostante la dura repressione ordinata dal governo; per il momento, comunque, è scongiurata la cementificazione del grande giardino. Ma sulla speculazione edilizia e su una serie di casi di corruzione avevano continuato a indagare magistratura e polizia, portando a clamorosi provvedimenti che hanno interessato le stanze del potere. Quarantadue persone in manette, ad altre ventinove avvisi di reato: fra gli arrestati i figli di due ministri e il presidente di una banca di stato.
Il premier Erdoğan si è visto costretto a sostituire dieci titolari di dicasteri ma non ha gradito le decisioni giudiziarie, esautorando magistrati e rimovendo otto prefetti e capi della polizia, oltre a 350 agenti che avevano condotto le indagini. In evidente difficoltà, ha gridato al complotto, coinvolgendo anche tradizionali alleati, come gli Stati Uniti. Con i quali i rapporti si erano un po’ deteriorati perché Ankara aveva aggirato l’embargo con l’Iran (del cui petrolio la Turchia ha un disperato bisogno) attraverso ambigue operazioni finanziarie internazionali.
Il partito al potere, “della giustizia e dello sviluppo”, guarda quindi con timore alla serie di scadenze elettorali che dalla primavera, con le amministrative, alle presidenziali in luglio, alle politiche del 2015, punteggeranno la vita politica del paese. Non saranno una passeggiata, contrariamente alle ultime consultazioni per il parlamento del 2011 che avevano dato a Erdoğan una maggioranza schiacciante. In particolare il premier, che costituzionalmente non può presentarsi per un quarto mandato, puntava alla presidenza. Ma le recenti vicende rendono il cammino più difficile perché l’attuale capo dello stato, Abdullah Guel, un moderato già ministro degli esteri, conquista consensi nell’elettorato, peraltro deluso dalla politica, come dimostra l’alto numero di annunciate astensioni.
Tanto più che a sfavore di Erdoğan si sta movendo un leader religioso di grande prestigio, Fetullah Guelen, in esilio volontario negli Stati Uniti, ma che controlla una diffusa rete di istituti di istruzione e gode di molte simpatie nella magistratura e nella polizia. Guelen ha aiutato Erdoğan, all’inizio, a disfarsi del potere dei militari, che per quasi ottant’anni hanno condizionato la politica di Ankara. Paradossalmente oggi il premier ha promesso una revisione dei processi nei quali molti alti ufficiali sono stati condannati, sperando in un appoggio delle forze armate. Ma anche questo riporta al passato e probabilmente condizionerà anche il futuro della Turchia, che – considerata un paese emergente dopo una serie di brillanti risultati – denuncia prospettive di regressione economica. Potrebbe essere questa la causa di insuccesso, o di un drastico ridimensionamento, delle ambizioni di Erdoğan.