CINQUECENTO GLI ASSASSINATI DA FEBBRAIO A MARZO, CHE SI AGGIUNGONO AGLI ALTRI QUATTROMILA DAL 2009 A OGGI, 300MILA PERSONE IN FUGA Non soltanto Nigeria. Non soltanto cristiani. In quel paese africano si sono consumate le violenze maggiori, con una spirale in crescita negli ultimi anni e mesi, contro cattolici e protestanti, e in misura equivalente contro musulmani non disposti all’intolleranza religiosa. Ma la litania di persecuzioni e morti, per quanto concerne l’appartenenza confessionale, riguarda un terzo delle nazioni nel mondo, più di due miliardi di persone.
L’elenco è lungo. Dalla Nigeria alla Siria, dalla Libia all’Egitto, dalla Somalia all’Arabia Saudita, dall’Iran al Centrafrica, dal Sud Sudan al Libano, dal Pakistan al Mali, dalla Cina al Bangladesh, dall’Indonesia alla Birmania, ad altre situazioni che hanno in comune l’oppressione di chi pensa e pratica e prega in modo diverso.
I cristiani sono obiettivi degli attacchi perché generalmente non replicano alla forza allo stesso modo. Come appunto in Nigeria, dove gli estremisti islamici hanno compiuto, dalla fine del 2013 sino a questi giorni, una serie di stragi dirette contro protestanti e cattolici: i miliziani di “Boko Haram”, musulmani fondamentalisti che vorrebbero imporre la legge coranica in tutta la nazione e che controllano un esteso territorio del nordest (dove le autorità centrali hanno dichiarato lo stato di emergenza), si sono accaniti contro edifici sacri, scuole, villaggi a maggioranza cristiani, uccidendo civili, studenti, bambini.
Cinquecento gli assassinati da febbraio a marzo, che si aggiungono agli altri quattromila dal 2009 a oggi, 300mila persone in fuga. Per il momento, accanto all’impotenza del governo centrale, vani sembrano gli appelli del Consiglio dei musulmani nigeriani che ha dichiarato la “guerra spirituale” contro Boko Haram, e le condanne comuni con le autorità cristiane che denunciano la strategia dei guerriglieri volta a terrorizzare la popolazione.
Nella Repubblica Centroafricana e in Sud Sudan si registrano le altre due situazioni maggiormente drammatiche del continente nelle quali i cristiani sono coinvolti. Il succedersi di colpi di stato in Centrafrica ha causato scontri nei quali inizialmente sono rimasti vittime i cattolici, alcuni dei quali hanno poi reagito con altrettanto irragionevole e inescusabile violenza. Mentre in Sud Sudan il conflitto che vede opporsi (anche per ottenere il controllo dei ricchi giacimenti petroliferi) i Nuer e i Dinka, le principali etnie del paese, si traduce in distruzioni di chiese, come nella diocesi di Malula, in vittime militari e civili (diecimila morti in pochi mesi) e in mezzo milione di profughi.
La deriva integralista tocca l’intero Medioriente, e tende a espellere i cristiani dal loro habitat tradizionale. La guerra civile siriana ha alimentato la diaspora di antiche comunità di credenti, che precedevano le occupazioni islamiche; l’esodo dall’Iraq, per esempio, è diventato una necessità di sopravvivenza per i fedeli stretti fra le opposte violenze fra sunniti e sciiti.
In Egitto la nuova situazione politica, con i militari tornati al potere, ha messo un freno alla persecuzione dei copti (il 10 per cento della popolazione, che peraltro è ormai sul chi vive) da parte del governo sino a poco tempo fa gestito dai Fratelli musulmani. Continuano comunque esazioni, rapimenti, omicidi e violenze. Dando ragione alle parole di papa Francesco: “In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una bibbia, e prima di ammazzarli non domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono siamo cristiani”.
Questo ecumenismo nella sofferenza si allarga all’Asia. In alcuni paesi, come in Cina, in Vietnam, in Corea del Nord, la repressione è politicamente motivata, in altri le ragioni sono religiose. A parte l’Afghanistan, dove l’occidente sta fallendo nella sua “missione” (se ne vedranno le conseguenze di qui a poco, quando le truppe della Nato sgombereranno il campo), sempre più precaria si sta facendo la condizione dei cristiani in Pakistan. Le discriminazioni aggravano ogni giorno di più la loro situazione di minoranza oppressa, in balia di una “legge antiblasfemia” che copre abusi di ogni genere.
Esemplare il caso di Asia Bibi, una donna cattolica che da più di tre anni attende in prigione il processo di appello, dopo essere stata condannata a morte, sulla base di pretestuose testimonianze, per aver “bestemmiato” il profeta Maometto. L’opinione pubblica si è mobilitata a suo favore impedendo sino a oggi che sia eseguita la pena capitale, ma l’imputata attende da oltre mille giorni – di rinvio in rinvio – che il tribunale si pronunci sulla sua sorte. Nel frattempo in diverse zone del paese ad alto tasso di fanatismo religioso si susseguono esecuzioni sommarie o attentati che uccidono, come recentemente in una delle più importanti città del nord, Peshawar, fedeli che si sono recati alla messa festiva, senza che le autorità si preoccupino di ricercare gli autori delle azioni criminali.
Ma il Pakistan non è l’eccezione. In Iran condanne durissime sono comminate a chi viene scoperto a pregare in gruppo o a studiare la bibbia e si chiudono chiese che utilizzano per i riti la lingua ufficiale del paese, il farsi. In Arabia Saudita è crimine esibire simboli religiosi non islamici o farsi il segno della croce, in analogia con molte altre nazioni musulmane.
La libertà religiosa è ufficialmente proclamata dalla Carta dell’Onu che, nei fatti, non è ancora riuscita a trovare il modo di renderla effettiva. Non esiste infatti una convenzione internazionale (per ovvie resistenze delle società islamiche) che impegni la comunità internazionale a far esercitare quel diritto, uno fra i primi diritti dell’uomo. E sino a quando l’obiettivo non sarà raggiunto, il cristiano continuerà a essere bersaglio di tutte le violenze.