Ventidue anni di carcere da innocente e trentasei di calvario con la giustizia: accusato ingiustamente a 18 anni di aver ucciso due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina, il muratore siciliano, oggi 55enne, è stato costretto a firmare una confessione dopo una notte di torture. Poi, grazie alle rivelazioni di uno dei carabinieri presenti, ha ottenuto la revisione del processo che lo ha assolto definitivamente per non aver commesso il reato. Ora gli avvocati hanno chiesto un risarcimento di 69 milioni di euro…
La vita spezzata di due giovani carabinieri in una piccola caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani, e l’esistenza segnata col pennarello indelebile di un diciottenne innocente, gettato brutalmente per ben 22 anni nella cella di un carcere insieme ai suoi sogni e alla sua voglia di vivere. È la triste sintesi di una storia vera e incredibile che nonostante i trentasette anni trascorsi da quel lontano 1976 non ha ancora scritto la parola fine. Almeno per quanto riguarda i nomi degli assassini dei due carabinieri trucidati. All’epoca, infatti, finirono in manette cinque persone ma il mistero di quella mattanza non è stato mai svelato. Due degli arrestati morirono in carcere, uno suicida con modalità poco convincenti…, l’altro per cause naturali. Degli altri giovani, tre amici dell’infanzia, due fuggirono all’estero durante le varie tappe processuali mentre il terzo, Giuseppe Gulotta, all’epoca 18enne, ha vissuto ben ventidue anni in carcere da innocente e trentasei anni di calvario con la giustizia… Una vicenda allucinante sulla quale sicuramente qualche regista dalla vista lunga si sarà già mosso per dare forma a un copione di sicuro successo.
Dopo la sentenza del 13 febbraio 2012 della corte di Appello di Reggio Calabria, Giuseppe Gulotta è tornato a respirare l’inconfondibile profumo della libertà. Quella che a 18 anni gli era stata strappata nel modo più doloroso e scioccante. Lui non aveva mai abbandonato la sua Alcamo, l’unica volta era accaduto per partecipare a Roma al concorso della Guardia di finanza. Figlio di una umile e onesta famiglia di contadini, nella speranza di indossare la divisa Giuseppe trascorreva le giornate dividendosi tra il lavoro di apprendista barbiere e quello di muratore. Un’esistenza semplice e serena che d’un tratto, però, gli fu sconquassata la sera del 12 febbraio del 1976 quando due carabinieri bussarono al portone dell’abitazione dove viveva con i genitori. Sedici giorni prima, precisamente il 27 gennaio, due validi e giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, erano stati barbaramente uccisi nel cuore della notte. Un duplice omicidio, oscuro nella dinamica e nel movente. Gli assassini, infatti, entrarono nella caserma sciogliendo con la fiamma ossidrica la serratura del portone e trasformando il riposo dei due militari in morte con diversi colpi di pistola un sonno eterno sotto i colpi d’arma da fuoco.
Da subito, come spesso accade nei tanti buchi neri made in Italy, nel pentolone delle ipotesi, finì di tutto: dalle Brigate rosse alla mafia, dai servizi segreti deviati a un gruppo di neofascisti, dal traffico di armi a quello della droga. I risultati prodotti in questo lungo arco di tempo, però, sono stati a dir poco sconfortanti: i due cadaveri sono rimasti senza giustizia, le loro famiglie consumate dal dolore e dalla rabbia e un innocente trattato per trentasei anni come un assassino. “Mi hanno costretto a firmare una confessione con le botte – osserva Giuseppe Gulotta nel retro dello copertina del libro Alkamar La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere Milano, pp.220, euro 14,00) mandato in libreria alcune settimane fa – puntandomi una pistola in faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere. Da lì in avanti non ho avuto un attimo di pace. Oggi ho cinquantacinque anni e ho passato in cella i migliori anni della mia vita…”.
Il libro, bellissimo anche se doloroso…, è stato curato dall’apprezzato giornalista e scrittore Nicola Biondo, colui che da collaboratore della seguita trasmissione di Rai3 Blu notte di Carlo Lucarelli, in una puntata dedicata alla strage di Alcamo Marina aveva mandato in onda un’informazione inesatta che, involontariamente, ha riaperto in maniera clamorosa l’assurda vicenda di Gulotta il cui finale, questa volta a lieto fine, è stato riscritto grazie alle rivelazioni di uno dei carabinieri presenti alle torture. Stiamo parlado dell’ex brigadiere Renato Olino che per la prima volta, e solo a partire dal 2008, ha riportato ai magistrati la sua versione dei fatti.
Prima di lasciare la parola a Giuseppe Gulotta, con cui ho amabilmente chiacchierato a Certaldo, in provincia di Firenze, nel cuore verde della Valdelsa dove oggi vive insieme alla moglie Michela Aronica, mi preme fare un inciso in modo da evitare equivoci o facili strumentalizzazioni. Nessuno, a iniziare da Giuseppe Gulotta, intende screditare l’onesto e professionale lavoro svolto quotidianamente dai tanti rappresentanti dell’arma dei carabinieri e di tutte le altre nostre forze di polizia. Ci mancherebbe altro, la loro opera, che spesso mette in gioco la vita, rappresenta un elemento fondamentale dello scorrere dell’esistenza serena di un paese civile. Un servizio che troppe volte, purtroppo, viene sottostimato se non addirittura umiliato attraverso stipendi inadeguati e una vergognosa insufficienza di mezzi a loro disposizione. Questa storia, dunque, è semplicemente il racconto di un giovane muratore finito ingiustamente in un tritacarne investigativo-giudiziario. E in questa brutta storia, che certamente non fa onore a un paese che si definisce civile, tra la varie “parti lese” c’è anche la stragrande maggioranza della Benemerita composta da onesti e fedeli servitori dello stato che nulla hanno a che spartire con alcune mele marce.
Ma torniamo all’attualità. Gli avvocati di Gulotta, Pardo Cellini e Saro Lauria, hanno chiesto allo stato il risarcimento più alto nella storia degli errori giudiziari italiani: 69 milioni di euro… Come ha osservato la Cassazione, si deve tener conto del tempo della detenzione, dei danni biologici, morali ed esistenziali subiti, a cui poi si aggiunge quello patrimoniale. Ma c’è forse qualcuno tra noi disposto a farsi rovinare l’esistenza in cambio di un mucchio di soldi? C’è forse qualcuno che sceglierebbe di vedere il proprio figlio appena nato diventare uomo attraverso il vetro divisorio del parlatoio del carcere in cambio di un voluminoso conto in banca? C’è forse qualcuno che accetterebbe di vedere i propri genitori spegnersi giorno dopo giorno per il dolore e morire con il pensiero di un figlio ergastolano in cambio di un conto in banca con tanti zeri…? Credo proprio di no. La vita non ha prezzo, sia quella gravemente danneggiata di Giuseppe Gulotta e della sua famiglia, sia quella spezzata dei due poveri carabinieri di Alcamo Marina. Ecco, allora, che questa ennesima pagina nera della nostra amata Italia deve far riflettere profondamente tutti noi. In particolar modo quei giudici che hanno gettato in una cella per ventidue anni un giovane innocente, quei carabinieri accusati di torture e manipolazioni della verità, quella stampa che ha rinunciato, per motivi poco nobili, a esercitare il proprio ruolo di controllo e di denuncia. E ancor di più dovrà far riflettere chi, a distanza di trentasette anni, non ha dato ancora il giusto riposo ai due militari uccisi e alle loro famiglie lasciando senza volto gli spietati assassini. Un’ultima cosa. È vero, nel nostro paese, soprattutto in questi tempi di crisi profonda, le priorità sono tante e molteplici. Una nazione che si dice civile, però, non può avere un codice che non contempla il reato di tortura. È assolutamente vergognoso, ancor di più per un paese della comunità europea.
Ora, però, è il momento di ascoltare Giuseppe. Credo abbia molte cose da raccontarci…
Qual è stata, Giuseppe, la prima cosa che hai fatto dopo aver riacquistato la libertà?
Non appena in tribunale ho ascoltato la bellissima parola assoluzione mi sono abbracciato ai miei famigliari. Subito dopo sono andato ad Alcamo da mia sorella per abbracciare anche lei.
La tua mente, invece, da quali pensieri è stata affollata…?
Più che i pensieri c’era una domanda che come un tarlo stava scavando il mio cervello…
Quale?
Ci voleva tanto per arrivare a questa conclusione? Ci voleva la dichiarazione di un ex carabiniere per far venire alla luce la verità?
C’è stato un momento in cui hai creduto di non farcela?
In tutti questi anni ho sempre proclamato la mia innocenza, la mia completa estraneità. Ho sempre ripetuto che la verità della mia innocenza era nelle carte processuali, bastava leggerle con attenzione per rendersi conto delle tante contraddizioni e falsità presenti. A riguardo le posso raccontare un episodio?
Prego…
C’è un verbale dove si afferma che i carabinieri, giunti nella mia abitazione per effettuare una perquisizione, mi avrebbero chiesto se volevo far assistere all’operazione un legale di fiducia… Niente di più falso visto che durante quella perquisizione ero rinchiuso in caserma…
Come hai superato la dura prova del carcere?
Confesso che ero proprio disperato… I miei genitori non facevano altro che tranquillizzarmi, ma io non ero per niente sereno. Avevo abbandonato la mia famiglia e anche il lavoro. I primi anni in carcere sono stati durissimi. Solo dopo tre mesi di isolamento ho potuto rivedere i miei genitori.
Sei credente?
Sì e la fede mi è stata di grandissimo aiuto, nei momenti d’isolamento la preghiera mi ha sostenuto in maniera incredibile. Inoltre nella mia triste storia ho incontrato tre sacerdoti straordinari che mi hanno aiutato tantissimo. Il primo è padre Giovanni Mattarella, di Trapani, che mi ha seguito dandomi dei buoni consigli come un fratello maggiore. Poi c’è padre Alberto che aveva una parrocchia vicino a Certaldo ed ha seguito amorevolmente i miei ragazzi e infine, durante il processo di revisione, ho incontrato don Pierfrancesco, pure lui di Certaldo, che insieme ad altri è stato particolarmente vicino a me e alla mia famiglia.
Ma in questi trentasei anni di calvario, di cui 22 trascorsi in carcere, la tua fede non ha mai vacillato?
Assolutamente no, non l’ho mai abbandonata, né messa in discussione. Anzi, tutte le volte che mi era concesso la domenica andavo sempre a messa.
E tua moglie Michela, invece, quanto ti è stata d’aiuto?
Anche lei è stata importantissima, se non ci fosse stata probabilmente non sarei qui a raccontarle questa storia. Lei e i miei quattro figli sono stati fondamentali, rappresentavano la mia famiglia, l’unica cosa che mi restava. Nonostante li potessi vedere solo nei rari colloqui in carcere, riuscivano a trasmettermi la forza per andare avanti.
A proposito di famiglia, come ti hanno accolto i tre figli avuti da sua moglie nel precedente matrimonio?
Inizialmente erano giustamente diffidenti nei miei confronti, soprattutto i due più grandi. Addirittura una sera mi stavano quasi buttando fuori di casa, non mi conoscevano e quindi temevano per la loro famiglia. Io, però, cercavo di fare il massimo per farmi accettare. Con il tempo, poi, le cose si sono aggiustate. A loro non ho mai nascosto nulla e anche i colloqui che avevo con mia moglie Michela li facevo alla luce del sole coinvolgendoli in ogni discorso.
Ma dopo aver trascorso ingiustamente 7.700 giorni in carcere, come fa un padre a spiegare ai propri figli che bisogna credere nella giustizia?
Onestamente si spiega male… ed è per questo, allora, che non smetterò mai di ringraziare mia moglie Michela che li ha cresciuti nel modo migliore formandoli come persone oneste e rispettose delle regole. E poi, come dicevo in precedenza, un altro importante contributo è arrivato dagli amici religiosi che non si sono mai tirati indietro. Oggi sono orgogliosissimo di tutti i miei quattro figli.
Il libro dove racconti la tua incredibile storia lo hai dedicato ai tuoi genitori che non ti hanno più visto libero… Se potessi riaverli dinanzi a te solo per un attimo, cosa gli diresti?
Li abbraccerei forte forte restando in silenzio… Loro hanno sofferto tantissimo e credo che questa mia storia assurda abbia in qualche modo influito sulla loro morte.
Cioè?
Mia madre, ad esempio, è morta di ictus a 72 anni e forse il dispiacere per quanto accaduto ha avuto qualche ruolo… Pochi anni dopo è morto anche mio padre che era rimasto solo. Lui era già un tipo silenzioso, ma dopo quello che mi era capitato si era chiuso in un silenzio ancor più preoccupante. Tutte le volte che ci vedevamo i suoi occhi si riempivano subito di lacrime…
Qual è stato il segreto per non impazzire dietro le sbarre?
Ovviamente la cosa che più mi è mancata è stata la libertà, ma fortunatamente la mia mente non sono riusciti a metterla dietro le sbarre… All’inizio mi avevano messo in una stanza buia con una piccola finestra che dava sul bosco. Avevo chiesto, allora, una cella con più luce, con una visuale che avrebbe consentito di sentirmi ancora vivo… In carcere avevo saputo che l’ultimo piano dell’istituto era ancora libero e quindi, quando ci fu l’occasione di cambiare stanza, io e un altro detenuto iniziammo a correre come matti per assicurarci una stanza in alto dove scoprire il panorama circostante…
Chi arrivò prima?
Riuscimmo ad averla entrambi. Era una stanza sul lato opposto del bosco e dalla finestra vedevo la campagna di San Gimignano. C’era poi un vecchio casolare, altre abitazioni e vedevo anche una strada con le macchine che passavano. Allora mi immaginavo in quel casolare, da uomo libero, a vivere la quotidianità con la mia famiglia…
La convivenza con gli altri detenuti com’è stata?
Essere rinchiuso in un carcere da innocente è una cosa che non auguro a nessuno… Col senno di poi posso dire che l’essermi isolato, alla fine, mi ha giovato. Per me l’ora d’aria non aveva una grande importanza visto che comunque avrei incontrato altri detenuti con i quali avrei affrontato i soliti argomenti: gli omicidi, i processi, la lontananza della famiglia, eccetera. Io non volevo trovarmi coinvolto in nessun ragionamento o discussione, mi sono sempre tenuto in disparte.
Non hai avuto mai problemi?
Mai. Non dico che mi portavano rispetto, però mi lasciavano tranquillo. Certamente alcune guardie mi guardavano con un occhio un po’ “strano” vedendo in me l’omicida di due loro colleghi… Col tempo, però, osservando il mio comportamento e ascoltando i miei racconti anche loro avevano cambiato atteggiamento. Ogni tanto, comunque, mi sentivo ripetere la solita frase: “Qualcosa avrai pur fatto per trovarti qui…”.
Ventuno udienze davanti alla Corte di Appello di Reggio Calabria e 6 passaggi in Cassazione. Immagino sia nato un rapporto particolare con i tuoi avvocati…
Dopo tutto questo tempo il rapporto con i miei avvocati, Pardo Cellini e Saro Lauria, si è tramutato da professionale in un legame di profonda amicizia. Ci frequentiamo e spesso condividiamo momenti di serenità e svago insieme alle loro famiglie. Mi sono stati sempre molto vicini e non hanno mai dubitato della mia innocenza. Hanno lottato con tutti i mezzi a disposizione affinché la giustizia ridonasse la libertà a una persona innocente. E così è stato.
Ma dopo tutto questo tempo che idea ti sei fatto? Quale mistero credi si nasconda dietro questa bruttissima pagina del nostro paese?
Purtroppo non sono in grado di dare nessuna spiegazione a questa tragica vicenda. L’unica cosa che continuo a domandarmi è come una persona semplice e pulita come me sia potuta finire in questo tritacarne giudiziario… Una spiegazione ai famigliari dei poveri carabinieri uccisi dovrebbero darla coloro che all’epoca condussero le indagini. Qualcuno dovrebbe loro delle scuse per averli illusi con una falsa verità, con dei falsi colpevoli.
In questi anni sono state fatte tante ipotesi ma nessuno ha fornito una risposta concreta. L’unica cosa certa è che bisognava trovare dei capri espiatori in modo da spegnere i riflettori su quel duplice omicidio.
La sentenza di revisione della Corte d’appello di Reggio Calabria, che il 13 febbraio 2012 ti ha assolto per non aver commesso il fatto, è arrivata grazie alle rivelazioni di uno dei carabinieri presenti alle torture…
Proprio così, anche se da tempo in tanti conoscevano la verità. E comunque quelle cose l’ex brigadiere Renato Olino le aveva già raccontate in precedenza ma nessuno aveva voluto ascoltarlo…
La fine del tuo incubo, però, parte da una notizia inesatta fornita da Rai3 nel corso di una nota trasmissione televisiva…
Esattamente. Era un giorno di fine settembre del 2007 quando mia sorella mi telefonò dicendomi di sintonizzarmi su Rai3 dove, nella trasmissione Blu notte del bravo Carlo Lucarelli, stavano parlando del misterioso duplice omicidio di Alkamar. “Hanno detto – mi disse ansimante – che gli indagati per la strage sono stati tutti assolti…”.
In quel momento cosa hai pensato?
Dopo aver guardato mia moglie con un’espressione incredula, chiesi a me stesso: Ma tu, allora, cosa ci fai in carcere…?
Una volta superato lo shock cosa hai fatto?
Proprio in quel periodo i miei figli avevano acquistato un computer e allora tramite internet contattarono la Rai chiedendo di rettificare l’errore. Successivamente mio figlio Dario, sul forum del sito di quella trasmissione televisiva, trovò questo messaggio: “Se qualcuno vuole sapere la verità sulla strage di Alcamo Marina, io so tutto”. Firmato Seddik 74.
Hai creduto che si trattasse dell’ennesima beffa?
Sia a me che a mia moglie vennero i brividi… Prima la notizia inesatta data in televisione, poi il messaggio di questo fantomatico Seddik 74… Fatto sta che la mattina seguente, una volta uscito dal carcere per andare al lavoro, feci avere una copia di quel messaggio ai miei avvocati. Nel frattempo mia nipote Caterina lasciò un messaggio a Seddik 74 sul forum della trasmissione e successivamente riuscì a mettersi in contatto con lui.
Quale reazione ebbero i tuoi avvocati?
Non fu entusiasta come la mia, dissero che avrebbero approfondito la questione ma che comunque non avrei dovuto nutrire particolari speranze. Visto l’andamento negli anni dei vari processi non volevano darmi false illusioni…
Ma per un innocente detenuto ingiustamente in carcere non era facile scacciarle quelle illusioni…
Proprio così. Infatti, una volta a casa, prima di rientrare in carcere trascorsi tutto il tempo al computer cercando qualche novità.
Infatti sulla vicenda di Alcamo si scatenò un tam tam di rete…
Diversi blog iniziarono a riparlare della strage di Alcamo riproponendo gli interrogativi di allora. I commenti postati aumentarono a vista d’occhio e addirittura una signora presentò un esposto alla procura di Trapani dicendo che “se ci sono degli assassini in libertà e degli innocenti in carcere dev’essere fatta giustizia…”.
Ma un’idea sull’identità di Seddik 74 tu ce l’avevi?
Non pensavo minimamente che dietro quello pseudonimo potesse esserci l’ex brigadiere dei carabinieri Renato Olino. Lo scoprimmo successivamente attraverso i giornali. Dopo quel passaparola sempre più frenetico, oltre alla procura di Trapani si mosse anche la Direzione nazionale antimafia e i primi accertamenti fecero riemergere alcune testimonianze di due mafiosi di peso, uno dei quali diceva che la strage andava letta come parte di un piano di destabilizzazione delle istituzioni in Sicilia organizzato con la collaborazione militare di alcune famiglie di Cosa nostra. Il piano, raccontava ancora il pentito, venne sospeso poco prima della sua esecuzione, ma la famiglia di Alcamo non venne avvertita in tempo e l’assalto venne portato a termine.
Nel frattempo la procura di Trapani convocò l’ex brigadiere Renato Olino…
E dal suo racconto i magistrati restarono sconvolti. A distanza di trentacinque anni raccontò le stesse cose che io avevo detto subito dopo l’arrestato.
Quale strada decisero di seguire i magistrati?
Aprirono immediatamente due inchieste, una sulle torture, con l’accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate, l’altra sulla strage, a carico di ignoti. Anch’io chiesi e ottenni di essere ascoltato dalla procura di Trapani insieme all’ex brigadiere Olino.
Come andò?
Al termine, dopo oltre due ore, il procuratore mi congedò dicendomi di avere fiducia. Per me era stata una liberazione, a quel punto avrebbero potuto anche rimandarmi in carcere togliendomi tutti i permessi… Ormai mi ero liberato dei miei incubi e dei miei mostri. Per la prima volta mi sentii protetto dalla giustizia…
Riavvolgiamo allora il nastro di questa assurda vicenda e torniamo a quella sera del 12 febbraio 1976, il giorno in cui due carabinieri bussano alla tua porta…
Quella è una data che vorrei tanto dimenticare sostituendola con quella della mia piena assoluzione… Ero a casa e stavo lavorando. Dopo tanti sacrifici, infatti, finalmente ci stavamo costruendo un bagno con tanto di doccia… Intorno alle 22 bussarono al portone due carabinieri chiedendo di Giuseppe Gulotta… Molto gentilmente mi chiesero di seguirli in caserma per alcune informazioni. Io, ingenuamente, non ci pensai un attimo. Prima, però, avvisai i miei genitori che erano già andati al letto. Ero tranquillissimo, non avevo mai avuto a che fare con i carabinieri e tanto meno con la cosiddetta legge… Addosso avevo ancora i panni di lavoro sporchi di calce e cemento. Pensavo addirittura che quella comunicazione si riferisse al concorso fatto per entrare nella Guardia di finanza…
Una volta in caserma, invece, cosa avvenne?
Senza dirmi nulla mi fecero sedere in una stanza lasciandomi lì per circa due ore. Verso mezzanotte, all’improvviso si aprì la porta dalla quale entrarono una decina di carabinieri che mi presero con la forza e mi legarono mani e piedi a una sedia con i braccioli… In quel momento non capii più niente, provai a divincolarmi, a reagire, a gridare ma loro mi stringevano sempre più forte. Nel verbale d’arresto scrissero che erano venuti a prendermi a casa mia alle cinque del mattino… Fu l’inizio di una incredibile serie di falsità e menzogne…
Cosa accadde poi?
Provai nuovamente a divincolarmi ma a quel punto arrivò il primo pugno violento in piena faccia… Da quel momento iniziò l’inferno. Mi presero a pugni, schiaffi e sputi. E poi ancora mi tirarono con violenza i capelli e mi strizzarono fino a svenire i genitali… Avendo le gambe allargate e legate non riuscivo neanche a proteggermi…
Cosa volevano da te?
“Devi dire la verità, devi raccontarci tutto” seguitavano a gridarmi… “Adesso ti ammazziamo come tu hai ammazzato i nostri colleghi…”. La loro saliva mi finiva in faccia e avendo la testa all’indietro non riuscivo neanche a deglutire… Indossavano dei guanti neri alle mani. “Devi dirci perché hai ucciso i due carabinieri di Alcamo Marina” continuavano. Più volte mi puntarono la pistola in faccia minacciandomi di uccidermi. Con la stessa pistola mi scorticarono il volto e il clic del cane più volte si alzò e battendo a vuoto…
Per quanto tempo ti tennero lì?
Fino all’alba. Ogni tanto entrava un carabiniere che mi insultava, mi tirava un pugno oppure i capelli. Ero diventato una sorta di tirassegno umano… “Dicci come hai fatto – ripetevano – i tuoi complici hanno già confessato, sei stato tu ad ammazzare i carabinieri…”.
E tu?
Ero sconvolto, mi stava per scoppiare il cuore e per il dolore e la paura mi ero fatto la pipì addosso. Solo allora compresi il perché della mia “convocazione” in caserma e dell’inferno che stavo subendo… “Non so nulla e non ho fatto nulla” risposi singhiozzando. Ma in cambio ricevetti altri pugni, altri schiaffi, altri sputi… Poi, di colpo, come se avessero ricevuto un segnale, uscirono tutti e nella stanza rimase solo un uomo in divisa. Solo molti anni dopo venni a sapere che si trattava del colonnello Russo.
Cosa ti disse?
Cambiò atteggiamento e con tono pacato mi chiese nuovamente di confessare. Poi, improvvisamente, fece i nomi di due miei amici di infanzia: “Stai perdendo tempo, Santangelo e Ferrantelli hanno parlato. Sono amici tuoi, vero? C’era anche quello grande, Mandalà, vero?”. Gli dissi che conoscevo sia Santangelo e Ferrantelli, ma di non conoscere nessun Mandalà. “E del duplice omicidio – giurai – non so proprio nulla”.
Ma chi aveva legato il tuo nome all’omicidio dei due poveri carabinieri?
Giuseppe Vesco.
Anche lui era un amico d’infanzia?
No, l’avevo visto solo qualche volta. Ma attraverso alcune testimonianze e alcune sue lettere ho saputo successivamente che era stato sottoposto a torture ancora più pesanti delle mie…
Cioè?
Questo è quanto racconta l’ex brigadiere Olino ai giudici della procura di Trapani: “Vesco venne disteso nudo su delle casse di legno in una stanza, con la testa reclinata all’indietro, i piedi legati e le mani legate dietro in una posizione sospesa e quindi fu invitato a confessare. L’interrogatorio andò avanti nel modo da me immaginato, praticamente gli venne messo in bocca un imbuto di metallo, gli veniva turato il naso e con un secchio venivano versate delle grandi quantità di acqua e sale… Questa attività venne intensificata con scariche elettriche attraverso i fili di un telefono da campo… Notai la presenza di un medico che dava l’ok, se andare avanti o fermarci, un medico militare che io ne conoscevo la presenza in quanto stava alla Legione Carabinieri… Vesco iniziò ad annaspare, buttava fuori un nome, presi i nomi, identificate le persone si andava a perquisire le case e a prenderli… Erano quattro ragazzini questi indagati… Io manifestai il mio disappunto sia al colonnello Russo sia agli altri colleghi”.
Giuseppe Vesco, a distanza di poco tempo, fu trovato impiccato nella sua cella. Le modalità, però, lasciarono più di un dubbio…
Dissero che si era impiccato a una grata alta oltre 2 metri e con un fazzoletto in bocca. Lui, tra l’altro, non aveva la mano sinistra… Nel processo di revisione un ex pentito di mafia ha raccontato che Vesco sarebbe stato ucciso dalla mafia con la complicità di due guardie carcerarie. Da quello che ho saputo, dopo il processo di revisione sarebbe stata aperta un’inchiesta per far luce su quel suicidio.
Torniamo in quella stanza dove i carabinieri continuarono a non credere alle tue parole…
Mi tennero prigioniero per ore, ero sfinito, avevo freddo, battevo i denti e mi sentivo tremendamente solo. Non ce la feci più, fui costretto ad arrendermi. “Vi dico tutto quello che volete – dissi con un filo di voce – basta che la smettete…”.
Ma perché confessare un duplice omicidio che non si è commesso?
Perché ero troppo spaventato e perché pensavo che quella falsa confessione mi avrebbe fatto uscire da quell’inferno… Tanto, credevo ingenuamente, racconterò quello che mi è capitato e dimostrerò tranquillamente la mia innocenza…
Invece?
Il pomeriggio stesso raccontai tutto al magistrato durante l’interrogatorio in carcere. Gli dissi che quelle mie dichiarazioni erano state estorte con la violenza, anche se per la gran paura che avevo ancora addosso minimizzai qualche particolare…
E lui cosa ti rispose?
Sembrava che ogni mia parola non gli interessasse… Per qualche schiaffo, mi disse, uno confessa un duplice omicidio?
Ma tu in volto avevi i segni delle violenze subite?
Certamente. Come da regolamento, prima di essere trasferiti in cella si passa nell’ufficio matricola dove gli agenti penitenziari che ti prendono in consegna devono refertare il tuo stato di salute. Una volta dentro, allora, un agente mi chiese conto di quei segni che avevo sul volto…
Cosa rispondesti?
Prima che potessi parlare uno dei carabinieri che mi accompagnava gli disse di scrivere sul verbale che me li ero procurati scivolando in caserma su una buccia di banana…
La famosa buccia di banana spesso menzionata nei film polizieschi…?
Proprio quella, scrissero questo sul verbale…
Ma l’avvocato di allora non sollevò alcuna obiezione?
Chiese un accertamento medico e quelle ferite furono giudicate guaribili in otto giorni.
Ma dopo la tua piena assoluzione per non aver commesso il fatto, hai mai ricevuto le scuse ufficiali da parte dell’arma dei Carabinieri?
No, non si è fatto vivo nessuno. A questo punto, però, più che a me dovrebbero farle ai famigliari dei poveri carabinieri uccisi visto che in tutti questi anni gli hanno consegnato dei falsi colpevoli…
Neanche l’ex brigadiere Olino ti ha chiesto scusa?
Lui si è scusato. Terminata la testimonianza davanti alla corte d’Appello mi venne incontro stringendomi la mano e chiedendomi scusa, anche per conto dei suoi colleghi…
E i media come si sono comportati in questa vicenda?
Sicuramente se qualche giornalista avesse scritto certe cose nel 1990 anziché nel 2009, forse mi sarei risparmiato qualcosina… Comunque non sono arrabbiato con nessuno, sono solo amareggiato per quella giustizia che, a volte, non indirizza l’attenzione verso i veri colpevoli…
Però ci sono stati anche dei giudici che hanno indirizzato l’attenzione nella direzione giusta scagionandoti definitivamente da ogni accusa…
Giusto. Ci sono stati dei giudici che hanno fatto sì che si arrivasse a una mezza verità visto che i veri colpevoli sono ancora in libertà.
Chiudiamo allora “la stanza degli orrori” e apriamo invece quella del tuo cuore… Come hai conosciuto tua moglie Michela?
È avvenuto per caso, a Certaldo, in casa di amici comuni. Lei è siciliana come me, è originaria della provincia di Enna. All’epoca, nel 1986, ero un uomo di fatto libero ma con la pena sulla testa… Dopo l’arresto fui assolto dalla corte di Assisi di Trapani per insufficienza di prove. Andai allora a vivere in Toscana, a Certaldo, in regime di soggiorno obbligato. E lì, appunto, conobbi Michela e trovai il lavoro. Dopo un po’ci fidanzammo e dalla nostra convivenza nacque William, il più piccolo dei nostri quattro figli.
Quando raccontasti a Michela la tua vicenda?
Una sera, mentre eravamo in macchina, lei mi disse che aveva qualcosa di importante da confessarmi… Pensando ai miei problemi trattenni a stento una risata… Mi disse che era stata abbandonata dall’ex marito e che aveva tre figli piccoli da mantenere: Dario, di quattro anni, Carlo di sei e Manolita di sette. Dopo averla ascoltata venne il mio turno. Le raccontai il mio incubo…
Come reagì?
Rimase in silenzio. Poi ci salutammo e per qualche giorno non ci sentimmo. Una sera, però, mi telefonò dicendomi che il giorno dopo si sarebbe trasferita da me… Aveva riflettuto sul mio racconto e soprattutto sull’uomo che aveva conosciuto.
Cosa hai provato quando hai saputo della nascita di William?
Una gioia immensa. La nostra famiglia si allargava.
Provo solamente a immaginare lo strazio di un genitore che vede crescere suo figlio dall’altra parte del vetro divisorio durante i colloqui settimanali in carcere…
William lo vedevo durante l’ora del colloquio settimanale. Ovviamente a turno incontravo anche gli altri bambini. La prima volta che è venuto a trovarmi è stata dura, non voleva staccarsi dalle mie gambe. Piangeva a dirotto dicendo di non voler lasciare il suo papà… Erano momenti struggenti e alcune volte anche gli occhi degli agenti penitenziari iniziavano a luccicare…
Cosa ti è mancato di più di lui?
Di William ho perso tutto. L’ho ritrovato adesso, a 25 anni. Tutti i suoi anni precedenti li ho vissuti di sfuggita, non ho mai potuto godermelo, crescerlo, fargli le coccole, giocarci insieme, donargli la giusta attenzione.
Ora pensate di rimanere in Italia oppure state progettando un futuro all’estero in modo da tagliare definitivamente i ponti con il passato?
Non sono fuggito da condannato, figurati se lo faccio oggi da uomo libero… Lo stato, comunque, in un certo senso mi aveva quasi “spinto” a farlo…
Cioè?
Dopo la sentenza definitiva di colpevolezza della Cassazione hanno aspettato 68 giorni prima di dare esecuzione all’ordine di arresto… Solitamente avviene nel giro di pochi giorni. Ancor meno, poi, se il condannato è accusato dell’uccisione di due carabinieri… Guardandomi indietro, allora, interpreto questa anomalia come una sorta di possibilità offertami dallo stato per evitarmi un epilogo che, forse, riteneva ingiusto… Dico la verità, l’idea di scappare qualche volta è transitata nella mia mente, ma l’ho scacciata via immediatamente senza alcun ripensamento. Ho sempre creduto che un giorno avrei dimostrato la mia innocenza.
I tuoi amici Santangelo e Ferrantelli che fine hanno fatto?
Fuggirono durante le varie fasi processuali. Comunque dopo la mia assoluzione anche la loro posizione è stata chiarita e di conseguenza sono stati pienamente scagionati.
Ora, Giuseppe, sui giornali e in tv tiene banco la milionaria richiesta di risarcimento allo stato presentata dai tuoi avvocati…
Loro stanno valutando tutti i danni morali e fisici scaturiti da un assurdo calvario durato trentasei anni… Se mi è concesso, però, vorrei dire una cosa…
Prego…
Se c’è una persona disposta a vivere il mio identico calvario durato 36 anni, di cui 22 anni trascorsi in carcere, al termine della sua “espiazione” gli girerò l’intera somma del mio risarcimento…
Come stai organizzando questa tua seconda vita?
Io la chiamerei terza vita… La prima, infatti, l’ho vissuta fino a 18 anni, la seconda da 19 a 55, mentre la terza è appena iniziata… La mia speranza è di tornare a essere al più presto