I RIPETUTI ATTENTATI GETTANO OMBRE SUL VOLTO PACIFICO DEL RILANCIO, ALL’INSEGNA DELLO SPORT, CORREDATO DA UN CONTORNO DI AMNISTIE, ALCUNE DELLE QUALI HANNO FATTO CERTAMENTE COLPO La minaccia del terrorismo incombe sulle Olimpiadi in-vernali che si svolgono a Sochi, in Russia, dal 7 al 23 di febbraio. Specialmente dopo le tre stragi con decine di morti a Volgograd, una a ottobre e le altre due a fine dicembre 2013, compiute da solitari kamikaze. Sono avvenimenti che difficilmente potranno aiutare la strategia con cui il presidente Vladimir Putin cerca di rilanciare, in tutti i campi, il ruolo della Russia. Perché ora Mosca deve rassicurare le diplomazie che non ci sono rischi per le rappresentanze sportive della novantina di paesi che partecipano ai giochi.
Così, dopo aver speso 37 miliardi di dollari per la messa a punto degli impianti olimpionici, il governo russo si trova impegnato in una colossale, e costosissima, “operazione sicurezza” che impiegherà 30mila fra poliziotti e militari, diretta a tutelare (e si spera così avvenga) gli ospiti e i visitatori – si parla di 150mila presenze – ma che renderà a tutti un po’ più difficile condurre una normale esistenza quotidiana, appannando il significato della manifestazione. Già declassata, peraltro, dalla annunciata non-partecipazione, fra gli altri, del presidente americano Barack Obama e dei suoi omologhi, francese François Hollande, e tedesco Joachim Gauck, della cancelliera Angela Merkel e del premier britannico David Cameron.
Al Cremlino si è consapevoli di avere a che fare, purtroppo, non soltanto con la resistenza organizzata di minoranze islamiche dell’area caucasica, ma anche con “schegge impazzite” impossibili da controllare, come i numerosi congiunti dei caduti nella repressione in Cecenia e Daghestan: fra essi le “vedove nere”, protagoniste di clamorosi episodi di guerriglia e di autoesplosioni con parecchie vittime.
I giochi di Sochi erano stati pensati in un quadro politico più largo, attribuendo loro una importante funzione di propaganda. Ma i ripetuti attentati delle ultime settimane gettano ombre sul volto pacifico del rilancio, all’insegna dello sport, corredato da un contorno di amnistie, alcune delle quali hanno fatto certamente colpo: al plurimiliardario Mikhail Khodorkovskij (già condannato a dieci anni di reclusione) e alle Pussy Riot, Maria Alyokhina e Nadia Tolokonnitova, le giovani femministe già duramente provate con la detenzione nei lager siberiani; insieme ad altri cosiddetti “teppisti” (compresi gli attivisti di Greenpeace) spesso colpevoli soltanto di non condividere le opinioni della casta dominante.
Quali che siano i risultati di facciata di Sochi, il disegno di Putin di restituire alla Russia uno status di superpotenza va avanti con alti e bassi. Certamente positivi i ruoli svolti nella crisi siriana, quando sembrava che fosse imminente una guerra mediterranea e Mosca ha indotto il premier Bashir al-Assad a consegnare gli arsenali chimici in suo possesso, e nelle trattative che hanno portato a una soluzione concertata e pacifica del contenzioso nucleare con l’Iran. Maldestri, invece, altri tentativi che ricordano antiche arroganze.
Il progetto dell’Unione euroasiatica è uno di questi: recuperare la perduta egemonia sui paesi un tempo facenti parte dell’Urss per gettare sul tappeto della diplomazia internazionale tutto il peso di una comunità in grado di gareggiare con Stati Uniti, Cina ed Europa. Per ottenere il risultato ogni mezzo pare buono. Dura repressione in Cecenia e nel Daghestan. Pressioni economiche su Azerbaijan e Armenia. Interessi e corruzione con il Kazakistan. Minacce, anche militari, nei confronti della Georgia che viene mutilata con l’occupazione di due province ma che, almeno per il momento, non sembra piegarsi e si associa all’Europa, come la Moldavia. Esemplare il caso dell’Ucraina, praticamente comprata da Mosca (che ha una base navale a Odessa, in Crimea, alla quale tiene molto) con quindici miliardi di euro e lo sconto di un terzo sulle forniture di gas, nonostante che la maggioranza della popolazione sia favorevole (e lo dimostra con manifestazioni di piazza da mezzo milione di partecipanti) a un’intesa con l’Unione Europea. Una serie di associazioni forzose che non si sa quanto a lungo possano reggere.
Per il momento la Russia può giocare con successo la carta delle forniture di idrocarburi, di cui è ricca e dei quali specialmente l’Europa è tributaria. Ma non è una buona notizia per lei che gli Stati Uniti si apprestino a raggiungere l’autonomia energetica, che oleodotti e gasdotti di tipo diverso possano cortocircuitare l’attuale oligopolio, che anche il Medioriente sarà costretto ad abbassare il prezzo del greggio poiché se ne estrae altrove e dappertutto, che le energie alternative si stiano facendo largo con successo. Anche per Mosca il tempo si è fatto breve e la faccia feroce rischia di avere esiti soltanto a corto termine.
Forse è il solito mezzo di alzare la posta per ottenere di più. Come l’ipotesi (non ancora una minaccia) di istallare missili a breve gittata, dotabili eventualmente di testate atomiche, nell’enclave russa di Kaliningrad – un porto sul Baltico fra Polonia e Lituania – come risposta allo “scudo Nato” che copre l’Europa orientale per prevenire possibili attacchi nucleari da Iran e Corea del Nord. La Russia non si rassegna a una funzione di potenza regionale che non può competere in ricchezza materiale e tecnologica con l’occidente (nessuna sua università si trova nell’elenco delle eccellenze accademiche mondiali, rarissimi i premi Nobel per le scienze), anche se le sue tradizioni culturali e spirituali fanno parte del patrimonio dell’umanità e dell’Europa in particolare. È probabilmente questo il lascito che, senza volerlo, Putin potrà trasmettere, se non si farà vincere dalla presunzione, alla comune civiltà.